Aspetti del Disturbo bipolare

Bipolare

All’interno del gruppo dei disturbi che interessano la mente, il Disturbo Bipolare (Link alla pagina) si pone come una delle condizioni con gravità di un certo livello; oltre a questo risulta essere cronica e ricorrente.

Le persone che ne soffrono vivono momenti di depressione, qualora mania e ipomania. Questi ultimi, nell’accezione clinica, si distinguono dal sentirsi depressi o euforici in base alla gravità, alla durata e all’impatto dei sintomi.
L’accurata analisi e diagnosi da parte di uno specialista è importante per comprendere se si rientra nel quadro clinico e contemporaneamente iniziare il lavoro per arginarne le conseguenze.

Dalle ricerche si è appreso che il corredo genetico gioca un proprio ruolo nell’insorgenza del disturbo bipolare. Nonostante ciò, altri fattori possono attivare lo scatenarsi della patologia; tra essi le esperienze di vita individuali, il modo di pensare e le relazioni che si instaurano sono alcuni aspetti salienti.

Come posso riconoscere i segnali della mania/ipomania?

Gli individui seguiti in terapia che hanno sviluppato una buona capacità di riconoscere i segnali euforici riconoscono maggiormente:

  • Diminuzione del bisogno di dormire ed interesse ad esso
  • Incremento energia
  • Aumento dell’autostima
  • Maggior impegno in attività
  • Aumento della socievolezza
  • Accelerazione del pensiero
  • Aumento irritabilità
  • Maggiore ottimismo
  • Sensazione di irrequietezza e eccitabilità aumentata
  • Le persone vicine possono aiutare ad individuare i segni
Come posso riconoscere i segnali della depressione?

Essi sono più complicati da individuare dalle persone; d’altra parte alcuni sono più comuni:

  • Perdita di interesse per le attività
  • Perdita di interesse verso le persone
  • Ridotta motivazione
  • Preoccupazione e ansia eccessive
  • Sonno disturbato
  • Tristezza e desiderio di piangere

Affinchè si sviluppi e si mantenga la capacità di cogliere in anticipo le ricadute è importante seguire il progetto terapeutico.
Infatti la bassa aderenza ad esso potrebbe essere la causa principale per la comprensione della lettura dei tassi di recidiva generalmente più elevati.

Quali esperienza possono favorire l’insorgenza del disturbo bipolare?

In una elencazione non esaustiva possono essere la mancanza di sonno, l’uso di alcol e/o sostanze psicoattive, lavori con alto grado di stress, così come stili di vita fuori dalla norma. Come visto sopra, in genere le persone che soffrono del disturbo riescono a evitare, o almeno gestire, le situazioni riconosciute in grado di provocare problemi di salute.

Un aspetto importante da sottolineare riguarda gli obiettivi che si possono raggiungere se aiutati attraverso un sostegno psicoterapeutico/farmacologico sia quando la persona vive le fasi depressive e maniacali in forma clinica sia nel periodo frapposto tra gli episodi.

Rispetto alla scarsa o assente aderenza al percorso terapeutico e farmacologico, oltre all’importanza del progetto terapeutico, emerge un urgente bisogno di sviluppare nuovi trattamenti farmacologici e psicologici per i pazienti bipolari. Non ci si deve fermare!

In aggiunta a questo, un trattamento adeguato può essere utile sul piano sia sociale sia personale; il beneficio si esprime quindi anche sui costi sociali oltre che sulla qualità della vita e benessere individuale/famigliare.

Terapia

è ormai assodato che l’efficacia della cura è maggiore quando alla terapia farmacologica viene associato un percorso psicoterapeutico.

bipolare

Trattamento farmacologico

I farmaci agiscono sugli aspetti medico/biologici delle persone: riduzione dei momenti di esaltazione o limitazione gli effetti della caduta depressiva.
La relazione che si instaura tra il medico psichiatra e il paziente è fondamentale. Durante il trattamento si possono attraversare delle difficoltà relative ai farmaci prescritti; trovare il dosaggio migliore o gestire gli effetti collaterali sono esempi di situazioni dove una buona collaborazione aiuta a trovare il trattamento farmacologico più adatto. Inoltre, la relazione terapeutica è altresì importante allo scopo di superare eventuali crisi e mantenere la terapia per limitare le ricadute nei momenti in cui si sta meglio.

Trattamento psicoterapeutico

La psicoterapia aiuta il paziente a riconoscere, evitare e/o gestire le situazioni che possono provocare vissuti stressanti per ridurre la probabilità di recidive.

“[…] è come se fossero (i farmaci) in grado di sbrogliare i miei pensieri e di riordinarli, mi rallentano, mi rendono più docile, mi impediscono di rovinare amicizie e carriere […]. La psicoterapia però, ineffabilmente, guarisce. Attribuisce un po’ di senso a tanta confusione […]”

Nella letteratura specifica alcuni studi mettono in evidenza approcci indirizzati verso la psicoeducazione. La diagnosi precoce dei sintomi prodromici e della gestione degli stessi sintomi, la gestione dello stress  e l’importanza di evitare sostanze illecite e alcol sono esempi di elementi di educazione al disturbo.

Sarà capitato ai lettori di avere molte cose da fare, avere diverse scadenze nel breve periodo ed il tempo a disposizione risulta scarso.
Arriva la consapevolezza che non ne abbiamo abbastanza per fare tutto: sopraggiunge lo stress. Allora appare il nemico, quello che ci porta a mettere in atto attività banali per cercare di gestire i momenti di stress.
Guardare il cellulare, una partita breve al gioco preferito, un po’ di musica, bere un bicchiere, ecc Potrebbe trascorrere mezz’ora e ci si rende conto che questo tempo sarebbe potuto essere stato dedicato agli impegni.
Allora sopraggiunge l’amarezza della realtà: mezz’ora è stata sprecata. Aumenta lo stress e la tentazione è quella di gestirlo con le stesse attività precedenti, quelle che però hanno fatto perdere appunto tempo…
Lo stress continua ad aumentare… questo potrebbe indurre nuovamente un processo depressivo o maniacale negli individui con Disturbo Bipolare.

Attenzione quindi a queste modalità disadattive di fronteggiare le situazioni che portano a vivere ansia e preoccupazione. Il colloquio psicoterapeutico ci viene in aiuto.

Allenamento mentale

Importanza dell’alleanza terapeutica

L’alleanza terapeutica è un fattore indispensabile nella positiva riuscita di un intervento terapeutico. Nello specifico del Disturbo Bipolare, nonostante che la limitata letteratura relativa agli effetti dell’alleanza sugli esiti dei trattamenti si intravede comunque come l’alleanza stessa determini la riduzione dell’impatto delle fasi tipiche della malattia.

Bibliografia

Colom, F., & Lam, D. (2005). Psychoeducation: improving outcomes in bipolar disorder. European Psychiatry20(5-6), 359-364.

Colom, F., Vieta, E., Tacchi, M. J., Sánchez‐Moreno, J., & Scott, J. (2005). Identifying and improving non‐adherence in bipolar disorders. Bipolar disorders7, 24-31.

Gaiseanu, F. (2021). Pathological expression and circuits in addiction and mood disorders: Informational relation with the brain and info-therapy. EC Neurology13(8), 1-12.

Jones, S., & Hayward, P. (2008). Il disturbo bipolare. Springer Science & Business Media.

Sitografia

www.stateofmind.it/2020/06/disturbo-bipolare-alleanza-terapeutica

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Cocaina e Psicoterapia.

La cocaina: effetti, abuso e trattamento.

Link veloce: cocaina e psicoterapia.

L’assunzione della cocaina, in tutte le sue forme, è oggetto di stigma sociale. Viene erroneamente ritenuta un vizio, una debolezza della volontà, un eccesso o percorso orientato alla sregolatezza.

La cocaina è una sostanza psicoattiva che provoca nell’utilizzatore effetti nella dimensione psichica e fisica. Le modalità di assunzioni sono diverse, tuttavia esse non determinano inevitabilmente la condizione di dipendenza. Per comprendere l’affermazione bisogna conoscere il meccanismo di azione a livello neuronale e come questo agisce sui vissuti della persona che ne fa uso, oltre al significato soggettivo attribuito agli effetti indotti. L’abuso provoca effetti nocivi sulla salute e, insieme alla stigmatizzazione, incrementa le difficoltà della persona dipendente nelle aree sociali, amicali, lavorative.

Nel quadro degli effetti psichici, induce nell’organismo ospite variazioni emotive e comportamentali ormai conosciute e studiate da diversi anni.

Esse si collocano in un range che dall’euforia conduce fino alla psicosi sulla base della gravità.
Diversamente da essi, gli effetti fisici riconducibili all’utilizzo riguardano per esempio la sensazione di infaticabilità.

A livello prettamente farmacologico si assiste a cambiamenti di concentrazione di biomolecole tra i neuroni presenti nel sistema nervoso centrale. Senza entrare nei dettagli biochimici, la cocaina blocca il recupero della dopamina nel terminale presinaptico; impedisce così il riassorbimento del neurotrasmettitore all’interno del neurone. Nella pratica clinica i contributi neurofisiologici come quello esposto sono importanti, aiutano a comprendere i modelli psicopatologici dei disturbi al fine di implementare la strategia terapeutica più opportuna.

Quali sono le motivazioni che rendono appetibile la cocaina?

Dopo aver compreso il meccanismo di azione della dopamina, ora proviamo a osservare gli effetti sull’esperienza.
La dopamina è oggigiorno considerato un neurotrasmettitore che permette di valorizzare la novità del contesto in modalità adattiva, integrarla in altri schemi cognitivi per attivare uno stato di attenzione focalizzata, di ricerca, di esplorazione di nuovi elementi. Inoltre, permette di affrontare eventi ambientali problematici con migliori strategie di fronteggiamento.
Si diventa più abili nella ricerca ed esplorazione; non solo, si affrontano più facilmente le situazioni problematiche.

Gli effetti ricercati…

come risultato ultimo il soggetto utilizzatore sviluppa uno stato mentale connotato da euforia, energia positiva e ricerca nell’ambiente; stato mentale quindi non riconducibile al solo elemento di piacere.
Dal punto di vista della trattazione teorica, un’analisi più approfondita sui vissuti mostra situazioni in cui il decorso è dissimile a seguito dell’assunzione di cocaina.

Quando l’uso della sostanza è occasionale, gli effetti ricercati dal soggetto destano grande entusiasmo ed eccitazione.Mentre di fronte a scarsa autostima, sensazioni di inadeguatezza e fragilità, vere o presunte, il soggetto ricerca nell’uso di cocaina il Sé desiderato. Quest’ultimo pone nelle condizioni di raggiungere gli obiettivi prefissati, oltre a percepirsi persone di valore, adeguate e forti. Cadono le barriere che ostacolano il raggiungimento degli obiettivi, ciò che spaventava o limitava ora non è più limitante. Allora l’assunzione della sostanza genere una nuova credenza su di sé; si diventa una persona capace, adeguata, sicure, di valore, ecc. Si vive così l’esperienza di superare i propri limiti.

Risvolti negativi: resto io o divento io desiderato?

Nei soggetti che attribuiscono alto valore agli effetti psicotropi della cocaina, mantenere il Sé desiderato, vivere oltre i limiti con assunzioni periodiche pone le basi per l’insorgenza del comportamento abusante.
L’aumento della reattività mentale e fisica, l’euforia, l’infaticabilità e maggior capacità di socializzare sono alcuni degli aspetti che facilitano l’insorgere della nuova credenza su di sé e la conseguente dipendenza da abuso.

Quali sono gli effetti patologici? Come ci si sente quando si abusa di cocaina?

Quelli fisici riconducibili all’utilizzo non occasionale riguardano vari apparati e organi: vasocostrizione, spasmi, infarti, ipertensione, edema polmonare ed altre complicazioni, inclusa la diminuzione della performance sessuale.

Uno sguardo ad ampio spettro degli effetti patologici mostra ad esempio anche l’irritabilità, il pensiero paranoide, interpretazioni falsate della realtà, gelosie infondate, infiammazioni della mucosa se inalata e dipendenza psichica e fisica, a cui seguono crisi d’astinenza con i sintomi tipici (irritabilità, sindromi depressive, stati d’ansia, insonnia e paranoia).

Ma cosa succede se smetto (nella situazione di assenza della sostanza)?

La depressione, la sonnolenza, l’inquietudine, tremori vari e dolore ai muscoli seguono spesso l’astinenza dalla cocaina.
È importante intervenire nella fase precoce dei sintomi da astinenza (ad esempio con un percorso psicoterapeutico). L’identificazione precoce e la regolazione delle emozioni, insieme, incrementano la probabilità di successo terapeutico.
Infatti, la disregolazione emotiva contrasta la capacità di mantenere lo stato di astinenza nei soggetti che decidono di uscire dalla condizione di dipendenza da cocaina.

Nell’ottica psicologica, interruzione dell’assunzione della sostanza pone la persona a vivere la consapevolezza dolorosa di avere dei limiti. Gli stati mentali appaganti in precedenza ora verranno a mancare. La carenza della sostanza rende possibile lo sviluppo del bisogno dello stato alternativo. La patologia si trova di fronte ai soggetti deboli che attribuiscono valore al Sé desiderato, oltre alla necessità di superare la condizione di bassa autostima percepita e il dolore che ne deriva.

Trattamento: il ruolo della psicoterapia.

Il trattamento farmacologico non è efficace o attuabile. La psicoterapia è un percorso efficace? Lo psicoterapeuta aiuta le persone a superare la dipendenza? Può farlo! Ma soprattutto permette alla persona di scoprire e gestire i propri limiti e ci si accetta. Nuove e adattive competenze per fronteggiare le problematiche contestuali vengono apprese. La psicoterapia può essere di aiuto a coloro i quali fanno uso e abuso di cocaina; probabilmente non sempre potrà esserlo, maggior probabilità di successo dopo che si interrompe l’assunzione della sostanza.

In alcuni casi chi ne fa uso non lo dice al professionista, giunge per altre problematiche; solo durante la terapia stessa può emergerne l’utilizzo occasionale o prolungato. È difficile parlarne col terapeuta, così come è complicato porsi nella posizione di interromperne l’uso.

Dalla letteratura scientifica emerge che il trattamento psicosociale attualmente rappresenta la modalità di accesso alla cura in quanto non sono presenti terapie farmacologiche approvate. Si tratta, in genere, di sedute individuali o di gruppo, con o senza il coinvolgimento dei parenti presso strutture dedicate o professionisti abilitati alla professione di cura.
La persona che decide di rivolgersi ai professionisti per uscire dalla condizione di dipendenza e dolore potrà rivolgersi a:

  • Serd / Asl di competenza
  • Ospedale
  • Medico di Base
  • Psicoterapeuta

Alla visita seguiranno eventualmente altre indicazioni adatte alla persona in base alla gravità della condizione fisica/psichica.
La scelta del percorso psicoterapeutico potrebbe essere preferita nei casi di difficoltà di accesso alle strutture pubbliche o quando di preferisce un approccio individuale in regime privato (maggiore discrezione, volontà di evitare l’esposizione allo stigma sociale).

La gravità della dipendenza e difficoltà del trattamento pongono come necessario l’accesso alle strutture pubbliche (Serd) per la presa in carico, o come lavoro congiunto al professionista privato.

Prospettive.

Come emerge dalle ultime ricerche sui processi decisionali, nel processo di guarigione dalle dipendenze il concetto di autoefficacia assume un ruolo importante. “Nel percorso di recupero è fondamentale l’autoefficacia e questa esiste se chi vive una dipendenza continua a credere di avere una possibilità di controllo, se i sistemi di cura e la società riproducono questa credenza e rendono la sua attuazione possibile, desiderabile, chiaramente vantaggiosa.” (Canali S., 2019 – psicoattivo.it)

La dipendenza sotto quest’ottica potrebbe essere definita come patologia della scelta/volontà e sempre meno come patologia dell’autocontrollo. La persona dipendente possiede sempre un margine di libertà e di responsabilità, non è un automa controllato dalla sostanza.
Sull’onda di tali concetti, la terapia narrativa potrebbe essere una alleata nella cura delle dipendenze da sostanza.

Quali sono le ragioni che mi spingono all’uso della sostanza?
Come agisce l’autocontrollo nel mantenere la difficoltà a rendersi indipendenti?
Quali pensieri e/o emozioni sono difficili da sostenere?
Come faccio a gestire l’astinenza e il craving?

Queste e altre domande la persona si porrà insieme allo psicoterapeuta nell’ambiente protetto, non giudicante e fiducioso del setting terapeutico.

In sintesi, con la psicoterapia si aiuta la persona a comprendere il significato dell’assunzione di cocaina, quali sono le emozioni e i pensieri intervenienti, come evitare le ricadute e i contesti facilitanti le stesse.
L’obiettivo condiviso del percorso di cura mira a cogliere la consapevolezza dei propri limiti e come affrontarli nella modalità più adattiva senza l’uso della sostanza psicoattiva.

Bibliografia

Contreras-Rodríguez, O., Albein-Urios, N., Martinez-Gonzalez, J. M., Menchón, J. M., Soriano-Mas, C., & Verdejo-García, A. (2020). The neural interface between negative emotion regulation and motivation for change in cocaine dependent individuals under treatment. Drug and Alcohol Dependence, 107854.

Kampman, K. M. (2019). The treatment of cocaine use disorder. Science advances, 5(10), eaax1532.

Myers, B. (2019). Psychotherapy for substance use disorders. In Global Mental Health and Psychotherapy (pp. 241-256). Academic Press.

Sitografia

Cocaina – https://www.stateofmind.it/tag/cocaina/

Assunzione di cocaina: psicopatologia e trattamento –  https://www.stateofmind.it/2016/05/assunzione-di-cocaina-psicopatologia-trattamento/

Cocaina: identificato un gene cruciale nello sviluppo della dipendenza – http://www.psicoattivo.com/cocaina-identificato-un-gene-cruciale-nello-sviluppo-della-dipendenza/

La dipendenza è una scelta? – http://www.psicoattivo.com/la-dipendenza-e-una-scelta-autocontrollo-e-uso-di-droghe/

La molteplicità dell’Io, l’identità narrativa e le terapie narrative – http://www.psicoattivo.com/la-molteplicita-dellio-lidentita-narrativa-e-le-terapie-narrative/


Si ricorda che lo scopo di questo articolo rimane puramente descrittivo e divulgativo, e rammento di rivolgersi sempre ad un professionista clinico per qualsiasi informazione o necessità (vedi Disclaimer).

Quando lo stalking viene perpetrato da una donna.

Quando si parla di stalking lo stereotipo prevalente suggerisce che la violenza sia stata perpetrata da un uomo. Circa l’80% dei casi conosciuti riportano un soggetto maschile come carnefice, ma dalle ricerche emerge che anche le donne possono mettere in atto una campagna di stalking verso una persona dello stesso sesso o del sesso opposto.

 

Per leggere l’articolo su State of Mind   vai…

 

Lo stalking: la formazione come proposta di prevenzione primaria.

Dott. Massimo Zedda – giugno 2011 

Il fenomeno stalking è stato definito da autori quali Galeazzi e Curci (2001) “un insieme di comportamenti ripetuti ed intrusivi di sorveglianza e controllo, di ricerca di contatto e comunicazioni nei confronti di una vittima che risulta infastidita e /o preoccupata da tali comportamenti non graditi”. Esempi di comportamenti sono continue telefonate e/o sms, appostamenti sotto casa o visite inaspettate sul luogo di lavoro, minacce di lesioni alla vittima o ai suoi cari, aggressioni fisiche.
La vittima percepisce i comportamenti assillanti come spiacevoli, disturbanti, lesivi e
inquietanti a cui seguono risposte difensive di tipo comportamentale (cambiamenti nella vita quotidiana, del numero di telefono, delle attività sociali, del lavoro ecc.) a cui possono essere correlati disturbi di tipo psicologico (ansia, depressione…).
Negli studi internazionali sono state individuate diverse tipologie di stalker, è importante conoscere con quale tipo di molestatore assillante si ha a che fare per poter attuare la strategia migliore possibile: non tutte le risposte agli stessi comportamenti producono lo stesso effetto, ad esempio l’intervento delle forze dell’ordine in alcuni casi è sconsigliato in quanto determina una escalation di comportamenti violenti, in altri casi un semplice avviso da parte di un’autorità competente fa desistere lo stalker. Le tipologie proposte dagli studiosi del fenomeno sono molte, si fa qui riferimento a quelle di Zona e collaboratori (1993) e di Mullen e Pathè (2002).
La prima classificazione suddivide gli stalker sulla scorta della relazione tra stalker e vittima: vi sono gli “amanti ossessivi” (soggetti affetti dall’idea delirante di essere amati dalle loro vittime, con cui non hanno nessun tipo di relazione), i “semplici ossessivi” (assillano le vittime che sono persone con cui hanno avuto contatti, come ex-partner, vicini di casa, amici, conoscenti, colleghi di lavoro, persone conosciute in ambito professionale), gli “erotomanici” (credono fermamente di essere amati dalle vittime).
La proposta di Mullen e Pathè prevede una classificazione basata sulle motivazioni degli stalker, sulla possibilità di entrare in contatto con la vittima e sulla diagnosi psichiatrica dello stalker. Lo stalker può essere un “cercatore di intimità” (cerca di costruire una relazione), un “rifiutato” (inizia generalmente la persecuzione dopo la fine di una relazione), un “respinto” (cerca la rivalsa, sa che il proprio comportamento infastidisce e impaurisce la vittima), un “risentito” (ritiene di essere stato danneggiato dalla vittima, cerca di punirla), un “predatore” (pianifica l’aggressione alla vittima, con la quale vuole avere un rapporto sessuale), un “incompetente” (è incapace di approcciarsi e intrattenere rapporti con persone appartenenti all’altro sesso).
È importante sottolineare come gli autori delle classificazioni sottolineano che non tutti gli stalker soffrono di una qualche patologia psichiatrica, spesso la problematica va ricercata nella mancanza di competenza relazionale; quest’ultima considerazione contribuisce a valorizzare l’approccio psico-educativo nell’affrontare il problema stalking ed i relativi vissuti disagevoli nelle vittime.
Diverse discipline (Giurisprudenza, Psicologia Sociale, Psichiatria, ecc) si sono preoccupate di definire i comportamenti che caratterizzano il fenomeno e le conseguenze che questi hanno sulla vittima.
La comprensione degli elementi che contribuiscono a determinare il comportamento molesto dello stalker permette di applicare le migliori strategie per massimizzare la prevenzione attraverso processi formativi, di intervento e di consulenza. L’intervento alle vittime tramite percorsi di formazione ha come obiettivo l’acquisizione di strategie di problem solving più idonee a fronteggiare le molestie. Anche sullo stalker sono possibili interventi volti a trasmettere le competenze relazionali idonee affinché possa interpretare correttamente i segnali dell’ambiente o corregga le modalità disfunzionali acquisite nella propria storia di vita.

Una breve storia sull’evoluzione del fenomeno.

Il fenomeno non è recente anche se la sua analisi e descrizione sono frutto di indagini e ricerche che hanno caratterizzato (soprattutto i paesi anglosassoni) gli ultimi vent’anni.
Basti ricordare i miti e le leggende che hanno contribuito a sviluppare la storia culturale dei gruppi umani; un esempio su tutti è il racconto di Ovidio sull’inseguimento di Dafne da parte di Apollo, in cui alla ninfa in fuga Apollo risponde: “io non sono un nemico: è per amore che ti inseguo”.
Più recentemente il tema è stato oggetto di soggetti cinematografici, come il film “Attrazione fatale” (in cui vengono descritti i comportamenti di una stalker rifiutata, 1987), “One hour photo” (il protagonista è uno stalker che potremmo definire ‘incompetente’, 2002) o il più recente “Diario di uno scandalo” (la storia narra di una donna che rientra nella tipologia ‘ricercatore di intimità’, 2006).
Gli anni novanta sono stati il periodo decisivo per la comparsa dei primi studi sistematici sullo stalking, arco temporale attraverso il quale il fenomeno è stato inserito in una cornice contestualizzata di ordine psicologico e medico in seguito ad alcuni episodi che si riconducono a vere e proprie aggressioni di tipo psicologico e fisico.
Il motivo dell’emersione del fenomeno nell’attenzione collettiva dalla letteratura viene
correlato al coinvolgimento di personaggi famosi la cui immagine e conoscenza erano (e sono tutt’ora) di dominio pubblico; ricordiamo le aggressioni al cantante John Lennon (1980), al Presidente degli USA Ronald Reagan (1981), alle attrici Theresa Saldana (1982) e Rebecca Shaeffer (1989) (Nicol, 2009).
Lo stalking oggi è all’attenzione nelle dinamiche sociali e, grazie alle ricerche effettuate in tale ambito viene identificato con minor difficoltà. Le caratteristiche essenziali del fenomeno, condivise a livello internazionale per definire il comportamento di stalking, sono tre: la presenza di un molestatore, di una vittima ed una serie di comportamenti intrusivi ripetuti nel tempo. Quest’ultimo elemento permette di differenziare il fenomeno rispetto ad altri comportamenti di violenza sul posto di lavoro o vita privata.
Le ricerche su ampi campioni di popolazione indicano che i comportamenti più frequenti che caratterizzano la campagna di stalking sono: telefonate ripetute, invio di sms, lettere, e-mail e materiale non gradito (fiori, cioccolatini, fotografie …).

Le conseguenze sul benessere psico-fisiologico nelle vittime sono rintracciate come
sintomatologia relativa a disturbi del sonno, emicrania, ansia, confusione, depressione, paura, attacchi di panico (Jaishankar e Kosalan, 2007).

L’incidenza del fenomeno sulla popolazione.

I primi studi sullo stalking negli adulti sono stati proposti negli USA negli anni tra il 1995 e il 1996 coinvolgendo 8000 donne e 8000 uomini nell’indagine dal titolo National Violence Against Women Survey, in Australia l’Australian Bureau of Statistics realizzò la Women’s Safety Survey nel 1996 coinvolgendo 6300 donne. In Europa assistiamo nel 1998 al primo studio in Gran Bretagna (British Crime Survey) con un campione di 9988 soggetti; in Italia la prima indagine nasce su ampi campioni nel 2006 con una la ricerca dell’Istat dal titolo ‘La violenza e i maltrattamenti contro le donne dentro e fuori la famiglia”, con delle interviste telefoniche ad un campione di 25000 soggetti. Le percentuali di stalking nello studio statunitense sono il 2.00% tra i soggetti di sesso maschile e 8.00% tra i soggetti di sesso femminile; nello studio australiano il 16.48% delle donne è stato stalkizzato; in Europa la ricerca britannica mostra il 16.10 % di maschi positivi al fenomeno contro il 6.80% delle femmine, mentre in Italia la percentuale delle femmine stalkizzate è il 18.80%.
Indagini sulla popolazione in Germania e Austria fanno emergere una percentuale dell’11.6 % di adulti stalkizzati.
Le percentuali relative al genere femminile aumentano se si considera la popolazione frequentante il college in USA (Jordan, Wilcon e Pritchard, 2007): tra le giovani donne il 52% risulta essere stata vittima di molestie e stalking. Le ricerche internazionali indicano che l’incidenza del fenomeno stalking presenta valori maggiori soprattutto nel contesto giovanile, età compresa tra i 18 e 29 anni, con una percentuale oscillante tra il 6% ed il 27% (Jordan, Wilcox e Pritchard; 2007). Tra i giovani, i soggetti di sesso maschile riportano esperienze di comportamenti violenti significativamente maggiori rispetto alle femmine, tranne per gli episodi di violenza sessuale (Bjorklund et al, 2010). Gli stessi autori riportano che i soggetti di sesso maschile sono attaccati maggiormente da sconosciuti, mentre le femmine sono maggiormente esposte alle violenze perpetrate all’interno del quadro formato da partner o expartner e membri famigliari.

La ricerca sui giovani italiani.

Su questo tema, un’equipe di ricercatori e psicologi dell’Università degli Studi di Torino e dell’Azienda Ospedaliera Universitaria – San Giovanni Battista di Torino (Molinette), si occupa da diversi anni di studiare l’incidenza anche nel nostro Paese (Acquadro Maran, Pristerà, Varetto e Zedda, 2010).
Inizialmente l’obiettivo posto era di analizzare il fenomeno all’interno degli studenti universitari descrivendone la natura, le motivazioni, la relazione vittima-stalker, i comportamenti caratterizzanti e le conseguenze sulla vittima
Il campione per lo studio sugli studenti universitari è formato da 142 studenti/sse delle Facoltà di Medicina e Psicologia, i quali hanno compilato e consegnato un questionario descrittivo della natura del fenomeno e sua evoluzione. Agli scopi della ricerca è stato adattato il Sheridan Questionnaire on stalking composto da 40 item articolati in otto sezioni (Sheridan e Davies, 2001; Sheridan, Davies e Boon, 2001).
La prima sezione fornisce dettagliate informazioni demografiche dei soggetti oltre all’item discriminante soggetti vittime da soggetti non stalkizzati.
La seconda sezione chiede informazioni demografiche sugli stalker. Nella terza sezione si indagano la natura e la percezione del fenomeno stalking oltre ad informazioni sulla relazione tra stalker e vittima. La quarta sezione indaga l’aiuto ottenuto dalle vittime da parte di terzi e la valutazione sull’intervento. La quinta sezione propone la suggestione su altre vittime e istituzioni. La sesta sezione coglie informazioni circa le strategie di coping delle vittime. La settima sezione intercetta le conseguenze fisiche, psicologiche e comportamentali subite dagli stalkizzati. L’ottava sezione richiede alla totalità dei soggetti di inserire altre informazioni oltre a proporre la compilazione del questionario a conoscenti, fornendo l’eventuale contatto.
Nella versione italiana modificata risulta che 36 soggetti (25.35%) sono stati stalkizzati, l’86.11 % di genere femminile ed il 13.89 % di genere maschile.
Il 41.70 % conosceva il fenomeno prima di diventare vittima; il 16.67 % pensava che lo stalker era una persona con disordini mentali; l’8.63 % pensava che lo stalking fosse un metodo utilizzato dai media per innalzare le persone a star system.
Il 79.41 % degli stalker erano maschi, il 20.58 % delle femmine stalkizzavano altre femmine.
Tra gli stalker con una occupazione lavorativa, il 26.92 % erano studenti ed il 19.23 % erano professionisti delle professioni di cura.
Per quanto riguarda le relazioni tra vittima e persecutore, il 41.67 % degli stalker era un expartner, l’11.11 % un collega o conoscente ed il 19.44 % un amico.
La campagna di stalking è durata da poche settimane a molti anni, con una media di un anno. Le strategie di coping messe in atto dalle vittime riguardavano le seguenti tattiche: la maggior parte delle vittime si è confrontata con lo stalker, il 25.00 % ha ignorato lo stalker (66.67 % non rispondeva allo stalker, mentre il 33.33 % interrompeva le telefonate). Il 58.06 % dichiara che le risposte allo stalker non hanno avuto effetto, mentre il 22.58 % ha ottenuto un risultato positivo dalle risposte allo stalker.
La sofferenza psico-fisica delle vittime mostra alcuni sintomi rilevanti, in molti casi con invalidità della vittima fino all’utilizzo dell’ospedale, con una maggioranza di casi riscontrata per la sintomatologia psichica; emicrania, astenia, problemi gastrici per i sintomi fisici, mentre gli psichici riguardavano rabbia, ansia e paura.
Il trattamento delle vittime richiede un approccio comprensivo, comportamenti raccomandati, consigli ed assistenza pratica per l’accesso alla polizia e alle forme di protezione legale (Mullen et al, 2006); interventi psicoeducazionali e supporto psicoterapeutico, come gruppi terapeutici con supervisore competente. Autori come Abrams e Robinson (1998) e Bisson et al (2007) suggeriscono una terapia cognitiva-comportamentale ed EMDR oltre ad altre tecniche di gestione dello stress.

La ricerca sulle Health Care Profession.

L’equipe di ricerca ha analizzato anche gli HCP, ovvero psicologi, psichiatri, medici, infermieri ecc. che dalla letteratura internazionale sono indicati come soggetti che a causa della professione svolta a contatto con soggetti problematici, risultano a rischio di violenza e di comportamenti molesti assillanti.
Le ricerche internazionali evidenziano due possibili spiegazioni all’incidenza dello stalking nelle professioni di aiuto sopra descritte. La prima è diretta conseguenza del prendersi cura dell’altro, comportamenti che inducono le professioniste ed i professionisti ad entrare in contatto con i bisogni profondi di aiuto delle persone, diventando più facilmente oggetto di proiezioni, affetti, relazioni interiorizzate. La seconda spiegazione si svincola dal contesto accudente per inserirsi in motivazioni intrinseche allo stalker stesso, il quale mette in atto comportamenti di stalking come possibile riflesso di una domanda di attenzione o una ricerca di rivalsa (attribuzione di responsabilità di problematiche di varia natura).
I dati sul campione italiano suggeriscono che il 14.93% (n=160) dei soggetti che hanno restituito il questionario (N=1072) ha subito la violenza, di questi l’85% (n=136) erano soggetti di genere femminile mentre il 15.00% di genere maschile (n=24): percentuali in linea con le ricerche internazionali.
Sul versante dell’aggressore si nota come il 71.25% (n=114) degli stalkers fossero soggetti di genere maschile ed il 18.75% (n=30) di genere femminile (16 soggetti non hanno dichiarato il genere di appartenenza).
Dall’analisi emerge che il 78,12% (n=125) delle vittime conosceva il persecutore, il 31.87% (n=51) dei casi si riferiva alla fine di una relazione, il 33.75% (n=54) dei soggetti stalkizzati ha subito stalking dal proprio partner o ex-partner, di questi il 33.33% (n=18) dei soggetti non ha subito atti di violenza domestica, mentre il restante 66.67% (n=36) dichiara di aver subito violenza psicologica (9.3%, n=5), emotiva (24.1%, n=13) od entrambe (33.3%, n=18). I fattori responsabili della campagna di stalking sono da attribuire per il 31,88% (n=51) dei casi a sentimento, per il 21,25% (n=34) a un rifiuto.
Sempre durante la campagna di stalking, i soggetti vittimizzati hanno accusato diversi sintomi fisici, tra i quali spiccano i disturbi del sonno, la stanchezza, il mal di testa e gli attacchi di panico. Non meno importanti sono stati i sintomi emotivi, soprattutto ansia, rabbia, paura ed irritazione.
Una conseguenza critica dell’impatto che lo stalking esercita sui soggetti che si dedicano alle professioni di aiuto può essere quella di innescare strategie di coping tali da arrecare un danno al processo relazionale con i pazienti, qualità relazionale necessaria per la cura, fino al punto che gli studiosi a livello internazionale concordano nell’affermare l’importanza della tempestività dell’intervento negli HCP. Come sostengono Galeazzi e Curci (2001), l’obiettivo preventivo deve andare verso politiche dedicate ad alleviare la sofferenza della vittima e scoraggiare la sua incapacità a svolgere il suo lavoro nel lungo periodo, incrementando strategie di coping alternative.

La prevenzione.

Come si è avuto modo di descrivere le vittime di stalking subiscono a livello psico-fisico conseguenze che si protraggono nel lungo periodo, in particolare per gli HCP tali conseguenze possono riguardare un cambiamento nello stile di relazione con i pazienti, a danno di quest’ultimi. L’intervento tempestivo a cui Galeazzi e Curci (2001) fanno riferimento può essere fatta a tre livelli: sociale/comunitario, organizzativo e individuale. A livello sociale/comunitario, la presenza nel Codice Penale dell’articolo 612-bis, che prevede misure contro gli “atti persecutori”, rappresenta la possibilità di riconoscere il fenomeno e di legittimare la denuncia per la tutela della persona, prefissandosi come un elemento di forza per i cittadini e le cittadine del nostro Paese.
A livello organizzativo, è necessario diffondere una cultura preventiva dal fenomeno stalking, ad esempio con corsi di formazione ad hoc per HCP nelle strutture ospedaliere, presso gli Ordini Professionali, ecc. in cui fornire adeguate informazioni anche sulle strategie di difesa.
A livello individuale, la prevenzione è strettamente correlata con l’informazione: far conoscere la rete di sportelli e istituzioni che si occupano a vario titolo del fenomeno, ad esempio, dare ampio spazio sui media alle iniziative in materia, ecc. Sarebbe opportuno anche proporre uno ‘Sportello d’ascolto’ sullo stalking in ogni Città e Provincia, in cui psicologi appositamente formati possano dare informazioni sul fenomeno e quindi eventualmente riconoscerlo nei comportamenti propri o altrui messi in atto, fornendo al contempo strategie di difesa (cognitiva, comportamentale, ecc.).
Una particolare attenzione va posta alla prevenzione scolastica: educare all’affettività e alla relazione può essere un’utile strategia per arginare il fenomeno.

Conclusioni.

Negli ultimi anni le ricerche sul fenomeno stalking sia sulla popolazione in generale che su gruppi professionali si sono moltiplicate, anche nel nostro Paese l’analisi, la descrizione e l’intervento sul fenomeno stanno trovando una sempre maggiore attenzione.
In particolare risulta che alcuni soggetti sono maggiormente a rischio di vittimizzazione: persone di sesso femminile, con età compresa tra i 18 e i 29 anni, che svolgono una professione di aiuto. A questi soggetti, come a tutta la popolazione, vanno dedicati programmi di formazione specifici, affinché siano in grado di riconoscere il fenomeno e di attuare tempestivamente le strategie di fronteggiamento più adeguate rispetto alla tipologia di stalker (ex-partner, conoscente, sconosciuto), alle sue motivazioni (risentimento, rifiuto, tentativo di stabilire una relazione…), alla presenza o meno di un disturbo psichico. Informare sul fenomeno può inoltre permettere di riconoscere su di sé comportamenti che l’altro potrebbe percepire come molesti e intrusivi. Di questa abbiamo esperienza diretta, al termine di un corso di formazione un giovane uomo ha ringraziato per la presentazione del fenomeno: senza rendersene conto, stava attuando quella persecuzione di cui avevamo presentato i contorni.
Chiedere aiuto, sia come vittima sia come persecutore, è il primo passo per l’intervento.

Lo stalking a Torino.

Bibliografia

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Il lutto.

Per Freud il lutto è una reazione affettiva ed emotiva ad una esperienza di perdita. Con il termine “perdita” non si intende solamente l’accezione di aver perso una persona cara, un oggetto particolarmente significativo al quale si attribuisce senso e significato, quindi coerenza al mondo.

Liotti (2001) suggerisce che il lutto, sulla base degli insegnamenti della teoria dell’attaccamento, attiva il sistema motivazionale innato dell’attaccamento stesso ed il soggetto rimasto solo si spinge alla ricerca della persona per la quale percepisce l’assenza per ottenere vicinanza e cure. Quando gli sforzi falliscono (come nel caso della morte di una persona cara, significativa o ideale significativo in genere) il soggetto vive l’esperienza di profonda tristezza e compare un sentimento di disperazione.

La perdita sconvolge e crea nel soggetto che l’ha vissuta il dissesto della struttura che permette di vedere ed organizzare la realtà; la conseguenza più diretta è la costrizione a rivedere il proprio modo di stare al mondo (si genera in molti casi una sofferenza soverchiante).

 

La fine di una relazione amorosa è una esperienza di perdita, ma anche una esperienza di morte, la quale rappresenta la perdita stessa come evento più vicino ai vissuti esperiti.

Ora, a mio avviso, è interessante riflettere su come gli studiosi hanno organizzato in modo dicibile e strutturato i vari elementi che compongono l’esperienza soggettiva del lutto, con tutti i limiti della soggettività umana e dichiarando che i passaggi non sempre rispettano la cronologia ed a volte una persona può regredire o persistere maggiormente all’interno di uno step.

Il lutto secondo Freud (1915)

Reazione maniacale
Reazione melanconica
Reazione del lavoro del lutto come esito positivo della depressione

Il lutto secondo la teoria di Bowlby (1980)

Fase dello stordimento o incredulità
Fase di ricerca e di struggimento
Fase di disorganizzazione e disperazione
Fase di riorganizzazione

Il lutto secondo la teoria di Therese Rando (1993)

Fase dell’evitamento
Fase del confronto
Fase dell’accomodazione o guarigione

Sei processi R:

Riconoscere la perdita
Reagire alla separazione
Ricordare e ri-esperire il defunto e la relazione
Abbandonare i vecchi attaccamenti
Riadattarsi a vivere nel nuovo mondo senza dimenticare il vecchio
Reinvestire

Il lutto secondo Onofri – La Rosa  (2015):

Dissociazione
Attivazione del sistema di attaccamento
Attivazione del sistema di accudimento


Bibliografica

  • Recalcati M. “Incontrare l’assenza” – Ed. Asmepa 2016
  • Onofri A., La Rosa C. “Il lutto” – Ed. Giovanni Fioriti  2015

 

La Psicoterapia.

La psicoterapia è un approccio dove il professionista ed il paziente si incontrano e decidono di affrontare insieme un percorso di cura per il trattamento dei disturbi psicologici.

La psicoterapia si fonda su una relazione ben studiata e definita, la relazione terapeutica, inserita in un luogo e tempo (setting terapeutico) e orientata ad un obiettivo, migliorare il benessere e la qualità di vita del soggetto.

Una persona decide di affrontare un percorso psicoterapeutico quando ci sono dei presupposti di disagio e malessere, in un momento di crisi e di sofferenza, quando non ne coglie la causa (o le cause) e, soprattutto, non sa come trovare sollievo e ristabilire un equilibrio nella propria vita.

Essere afflitti non sempre è la giusta motivazione alla psicoterapia, non basta “stare male”, i comportamenti disadattivi emergenti costituiscono la spinta motivazionale alla richiesta di aiuto. Spesso possibili comportamenti che mettono a rischio la vita sociale, lavorativa o famigliare, anche comportamenti anticonservativi o autolesivi operano come motore motivazionale alla ricerca di benessere.

Il paziente acquisisce nuove prospettive per rapportarsi al mondo (accezione evolutiva) grazie alla relazione stessa ed all’utilizzo di strumenti e tecniche che inquadrano la struttura professionale degli incontri.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce la salute mentale come “uno stato di benessere emotivo e psicologico nel quale l’individuo è in grado di sfruttare le sue capacità cognitive o emozionali, esercitare la propria funzione all’interno della società, rispondere alle esigenze quotidiane della vita di ogni giorno, stabilire relazioni soddisfacenti e mature con gli altri, partecipare costruttivamente ai mutamenti dell’ambiente, adattarsi alle condizioni esterne e ai conflitti interni.”

Due elementi importanti della psicoterapia sono la durata e la frequenza degli incontri; questi due elementi non possiedono una struttura predefinita ma risentono di alcune variabili. Tra queste, non in ordine di importanza, ci sono il problema del soggetto, i vincoli personali, la persona con i propri ritmi di cambiamento e le risorse personali possedute (risorse non di tipo economico). Nella pratica quotidiana si assiste in genere a richieste di incontri settimanali o quindicinali.

Basta solo recarsi dallo psicoterapeuta? Oppure ci si può recare solo dallo psichiatra?
In caso di sintomatologia acuta potrebbe essere utile una co-terapia con lo psichiatra al fine di avere il supporto farmacologico.
I farmaci sono necessari nella prima parte del lavoro terapeutico se la sintomatologia acuta presenta un’importanza tale da sviluppare forte sofferenza nel paziente, ponendolo nella condizione di non poter trarre benessere dal lavoro con lo psicoterapeuta.
Ma è altrettanto vero che solo l’utilizzo di psicofarmaci non promuove il cambiamento, così da rendere necessario il lavoro psicoterapeutico in parallelo alla somministrazione farmacologica.

Nei casi complicati, si crea quindi la sinergia psicoterapeuta/psichiatra.

L’utilizzo del farmaco andrà diminuendo con l’avanzamento dei colloqui terapeutici e di pari passo con le ritrovate (o trovate) risorse disponibili, così da fronteggiare il malessere con i propri mezzi personali e non solo attraverso il contributo farmacologico.

Psicoterapeuta, psichiatra o neurologo? Le differenze.  Vai …